giovedì 5 giugno 2008

Crescere

L'altra sera leggendo "Ricambi" di Marshall Smith Michael, mi ha colpito molto un passaggio, tanto che ho deciso di salvarlo e condividerlo.

Ricambi è un libro ambientato in un futuro prossimo venturo dove i ricchi appena nati si fanno clonare per avere pezzi di ricambio. Fra parentesi che futuro veramente triste e squallido!, ma mi sa purtroppo non così lontano dalla realtà di un uomo che continua a giocare a fare Dio.

«A volte non si può avere tutto quel che si vuole», disse l'uomo, con un'insulsaggine che suscitò in me i peggiori istinti.
«Ti ha mandato mio padre?», dissi bruscamente, fissandolo. Lui spalancò gli occhi e parve guardarmi in modo diverso. «Non posso avere le cose perché sono un bambino, e non sarò più un bambino solo quando smetterò di volerle?».
«Questo ti ha detto?».
«Già. Questo e altro». Per un attimo fui sul punto di rivelargli alcune cose, di parlare per la prima volta di com'era la vita. Non avevo amici, a quei tempi, perché continuavamo a traslocare al seguito di mio padre, che era sempre in cerca di lavoro. Avevamo visto gran parte della Virginia, ormai, ma la situazione non è che fosse migliorata. Mio padre non era pigro, tutt'altro. Una delle sue massime preferite era: "Un uomo senza lavoro è buono solo come mangime per gli animali". Era sempre occupato a fare qualcosa, ma senza convinzione, senza gioia, senz'altro che l'odio a lenta combustione per tutto ciò che lo circondava. A volte quando si sedeva gli tremavano le mani, come se tutto il suo corpo vibrasse per un impulso distruttivo. Se trovava un lavoro, bastava una settimanarimanere in un posto per più di un paio di giorni, facevamo delle festicciole. Mia madre cercava di sottolineare i momenti buoni nella convinzione che ciò potesse trattenerli. Preparava pranzetti speciali e vicino a ogni piatto c'era sempre un regalino, scelto con cura in un negozio di cianfrusaglie. Odiavo le feste per le menzogne che spandevano, per il modo in cui facevano colare su di noi l'amore insulso e nefasto di mia madre. Anche quando scartavo una nuova matita o una scatoletta colorata, pensavo a quelle che avevo già ricevuto. Mia madre si metteva a perlustrare allegramente la città per raccogliere informazioni sulle scuole locali, ma nel giro di quindici giorni traslocavamo di nuovo.
Stringevo amicizie per pochi giorni, al massimo per un paio di settimane, con bambini che poi scomparivano nel vento e si perdevano tra le montagne. Mia madre mi parlava come fossi un bambino, perché attenersi a quella convinzione era l'unico modo che aveva per andare avanti; i suoi genitori, con cui eravamo stati sulla costa, non erano molto inclini a parlare con il figlio del loro genero.
Ma io non risposi nulla a quel vecchio, e sprofondai in un silenzio infranto solo dalle lacrime. La diga era già troppo resistente. Lasciarla cedere mi sarebbe sembrato un tradimento. Volevo essere felice, come tutti, e credo di aver capito che se avessi cominciato a parlare francamente, avrei incrinato quella parete per sempre. «Si sbaglia», disse l'uomo all'improvviso. «Si sbaglia di grosso». Il cuore mi vacillò quando udii quelle parole, quando per la prima volta un adulto mi disse quello di cui io ero convinto nel più profondo di me stesso. Mi asciugai gli occhi e restai in silenzio.
«Quando si cresce, certe cose non sembrano più così importanti», proseguì, posando gli occhi tranquilli sulla gente che passeggiava lungo la battigia. «Pochi anni fa, ero ancora all'inseguimento di tante cose. Ora, non riesco neppure a ricordare perché. Ma d'altronde sono vecchio e pronto a morire; quindi qualunque cosa io dica non fa differenza». Mi stiracchiai garbatamente, un po'imbarazzato, e lui si mise a ridere. «Che cosa farai da grande, ragazzo?».
«Mi troverò un lavoro», dissi; lui annuì. Forse sapeva cosa intendevo, forse no.
«E con i gelati?».
«Ne avrò a bizzeffe», dissi, sicuro e serio. «Ne mangerò tutti i giorni, anche più di un gusto alla volta, e mi farò dare dei coni enormi con noccioline e cioccolato». Lui scoppiò a ridere, ma smise vedendo l'espressione dei miei occhi. «Dico davvero».
«Lo spero per te», disse. «Veramente. Quando ero alto come te, mi piacevano le mele caramellate. Ti piacciono le mele caramellate?». Sollevò le sopracciglia interrogativo, ma io non lo sapevo. Le avevo viste, ma mai assaggiate. «Sono buonissime. Forse addirittura meglio del gelato, anche se ammetto che è una bella lotta. Mia madre mi portava alla fiera, quando arrivava dalle nostre parti, e io prendevo sempre queste mele. Erano durissime e dovevo inclinare la testa di lato per usare i molari, in modo da non spaccarmi i denti davanti in mille pezzi». La storiella mi fece sorridere, e anche lui sorrise; sul suo volto, dietro la pelle di carta, vidi un mio coetaneo, uno con cui correre e giocare.
«Ma i denti non si rompono», dissi. «Sono più duri dei sassi».
«Forse hai ragione, ma allora non lo sapevo. E dicevo sempre che da grande avrei mangiato una mela caramellata al giorno e sarei stato sveglio fino a tardi tutte le sere a guardare la TV finché i miei occhi non fossero diventati quadrati, e nessuno mi avrebbe preso a sberle. Credevo che diventare adulti significasse quello. Credevo fosse tutto lì lo scopo».
Per un po' restai in silenzio, presagendo l'arrivo di qualche triste notizia, di una rivelazione che non desideravo affatto accelerare. Mia madre era ancora dall'altra parte della baia. Un'ombra proiettata dal sole del tardo pomeriggio si avvicinava furtiva alle rocce su cui lei si trovava.
«E che cos'è successo?», domandai infine.
«Sono cresciuto», disse, apparentemente intenzionato a chiudere lì il discorso.
«E allora? Poi, cos'è successo?».
Gli occhi dell'uomo sembravano lontani. «Sono stato alzato fino a tardi, ho guardato la TV e ho avuto una vita abbastanza bella», disse. «Ma credo di non aver mangiato neanche una mela caramellata in più di quarantanni».
«E com'è possibile?».
«Te ne dimentichi», disse, e si strinse nelle spalle.
«Io non me ne dimenticherò. Farò tutto. Ogni volta che ne avrò voglia, e nessuno potrà fermarmi».
«Bene», disse lui. «Lo spero per te. Ci sono modi peggiori di vivere che ricordandosi di quello che si vuole. Ricorda pure, figliolo, e prendi quel che vuoi quando ne hai voglia, e non farti fermare da nessuno. Prova a piegare il mondo al tuo volere finché sei ancora in tempo».

Il bambino che non gioca non è un bambino, ma l'adulto che non gioca ha perso per sempre il bambino che ha dentro di sé.
(Pablo Neruda)

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Bisogna vivere come si pensa, altrimenti si finirà per pensare a come si è vissuto. (Paul Bourget)

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